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HomeCinema, serie e libriI Diari della Motocicletta. Un giretto che tutti dovremmo fare.

I Diari della Motocicletta. Un giretto che tutti dovremmo fare.

Al momento di scegliere un film da guardare ci si pongono molte domande. Di che genere ho voglia in questo momento? Ho la forza di vedere qualcosa di impegnato o meglio, qualcosa di leggero? Scelgo un blockbuster o un film meno conosciuto?

Bene, un po’ di tempo fa ho conosciuto e parlato con una persona che è stato amico di Chavez e Fidel Castro. Una persona che mi ha raccontato un risvolto della storia che noi non abbiamo vissuto perché dall’altra parte del mondo.

Quest’incontro mi ha portato a guardare in quel pezzo di storia a noi giunto solo come l’olimpo greco. In forma di mito. Così ho acchiappato questo film.

In sintesi è la storia di un Ernesto Guevara ventitreenne in viaggio di piacere con il suo amico Alberto Granado e la sua “poderosa”, vecchia e malandata moto, attraverso il subcontinente sudamericano.

All’epoca Guevara era un brillante studente di medicina. Decide di partire per quest’avventura prendendosi una pausa dai suoi studi.

Il racconto ci presenta l’immagine di un ragazzo di forti principi, ma spensierato, deciso a viversi quattro mesi selvaggi in compagnia di un amico che è più un fratello.

L’obiettivo è arrivare in quattro mesi in Colombia percorrendo ottomila chilometri e festeggiare il trentesimo compleanno dell’amico Granado. La postproduzione ci guida con delle didascalie dei luoghi, ma soprattutto dei chilometri percorsi. La direzione iniziale è verso sud, visitando il centro dell’argentina, passando a salutare la “fidanzatina” di Ernesto per proseguire verso il Cile e la Cordigliera delle Ande.

Ci sono due cose che balzano subito agli occhi. Una è l’immane bellezza di luoghi ancora oggi poco intaccati dalla civiltà che impressiona anche i nostri due giovani protagonisti. La seconda è la voglia pura e pulita di vita. Ernesto e Alberto non cercano droghe e donne da scopare. Non cercano divertimento fine a se stesso, ma come lo stesso Ernesto risponde alla domanda “E voi perché viaggiate?” posta da una coppia di cileni in cerca di lavoro,  “noi viaggiamo per viaggiare!”

Intanto la Poderosa dà sempre più problemi ed i nostri eroi arrivano in Cile. Poco alla volta i toni del film diventano più profondi. Ernesto ed Alberto conoscono una coppia di agricoltori cileni sfrattati dalle multinazionali che, disperati e separati per forza di cose dai figli, cercano di raggiungere una miniera in cerca di lavoro. In loro cresce un sentimento caldo di empatia. Per la prima volta Ernesto si trova a decodificare la realtà come un adulto indipendente. Ed inizia a vedere come la sua terra ed i suoi fratelli sono costretti ad una invasione culturale ed economica a cui è difficile ribellarsi. Riportando tutto nei suoi diari annota le sensazioni che prova conoscendo esperienze di vita diverse.

Si concedono riflessioni filosofiche passando per Machu Picchu, paragonando la cultura indios alla cultura dominante degli anni ’50.

Nel frattempo mi accorgo che sono nel film. Non in uno stato di suspense o eccitazione. In uno stato che non riesco a descrivere se non come compartecipazione.

La poderosa è ormai andata e loro sono costretti a continuare il viaggio a piedi, sfruttando amicizie.

È attraversando vari paesi, cittadine, che Ernesto “non ancora Che” Guevara acquisisce una sensibilità sociale così grande che lo porterà a diventare quell’eroe come lo ricordiamo adesso.

Arrivati in Perù si offrono volontari come medici per il lebbrosario di San Paolo dove passano tre settimane con i malati su un isolotto nel fiume. 

Alla sua partenza dal lebbrosario Ernesto pronuncia un discorso toccante sulla visione di un Sudamerica unito, fatto di una sola razza meticcia dal Messico allo stretto di Magellano. Libero.

Questo è in effetti il momento simbolico della nascita del “Che”.

All’arrivo in Colombia, dopo aver percorso più di dodicimila chilometri, i due ragazzi sono profondamente cambiati.

Alberto accetta un posto di rilievo all’ospedale di Caracas.

Ernesto intraprende la strada di rivoluzionario con l’obiettivo di liberare le popolazioni oppresse del suo Sudamerica.

Il film è senza ombra di dubbio pensato, girato e montato molto bene. Non ha pecche tecniche. Ma lascia senza parole. Lascia solo un sorriso ed una sensazione di calore nel petto. Lascia la speranza di soluzione di tante problematiche che tutti noi ci troviamo ad affrontare. Lascia pensare che la realtà come noi la viviamo non è l’unica, e che forse bisognerebbe cercarne quante più possibili per interpretare il mondo nel modo più vero. Più giusto. Butta a terra la convinzione che il semplice studiare ed osservare delle situazioni possa darci delle risposte. O ci basti per riuscire a formulare delle soluzioni. È diventato uno dei miei film preferiti perché è corposo. Ha sostanza. Senza mezze parole o possibili interpretazioni. Crudo e reale come in certi momenti si dovrebbe essere. Dovremmo prenderci tutti noi quattro mesi della nostra vita per farci un giretto in moto.

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